L'Etoile du soldat
Dall'11 Settembre 2001, o meglio, dai giorni a seguire, il mondo scoprì l'Afghanistan. Non che prima non si sapesse dove fosse, o se ne ignorasse addirittura l'esistenza, ma il suo popolo e la sua storia era stata da tempo dimenticata. Pochi o nessuno aveva fino ad allora parlato del regime dei talebani: caduto il muro di Berlino e la guerra fredda, l'Afghanistan aveva smesso di essere nelle mire del regime sovietico, e di riflesso degli Stati Uniti.E così l'attacco terroristico agli States ed al mondo occidentale in generale, sembrò arrivare come un fulmine a ciel sereno.
Il francese Christope de Ponfilly, regista e sceneggiatore di "L'étoile du soldat", quella zona e le vicende correlate invece le conosce benissimo Dal 1981 quelli sono stati i luoghi ed i personaggi di molti suoi documentari. Parlare e spiegare chi e come fossero nati "gli afgani" nell'accezione che tuttora se ne da, diventò quindi per lui sia un'esigenza che un dovere.

Partendo dallo spunto offerto dalla vicenda davvero accaduta di un soldato russo catturato dalle milizie afgane durante l'occupazione sovietica del 1983 e che durante la prigionia conobbe ed apprezzò la cultura dei suoi sequestratori, de Poinfilly ricostruisce un periodo storico importantissimo per capire il presente. Furono i russi a portare "il germe della guerra civile", gli americani attraverso il sovvenzionamento delle ale più radicali degli afgani e dei vicini pakistani a rendere ancor più cruento quello che diverrà uno scontro "interno" prolungatosi fino all'affermazione del regime talebano.

Erano tempi in cui la copertura mediatica degli eventi non era così globale come adesso e ancor meno libera di quanto ancora oggi non sia. Se l'URSS non faceva filtrare alcuna notizia al riguardo nella propria nazione, gli Stati Uniti lavorarono nell'ombra perché questa zona diventasse per i loro nemici storici quello che il Vietnam fu per loro. Per mettere in risalto questo aspetto dePoinfilly inserisce nella storia, quasi come alter ego di se stesso, il personaggio del fotografo Vergos. Attraverso il suo occhio, viviamo la guerra e la resistenza afgana dalla parte di chi fu soprattutto vittima, ma al contempo ignorata dal resto del mondo. Forse dePoinfilly eccede nel rappresentare così positivamente gli autoctoni della zona, tutti buoni e comprensivi, ma chi saprebbe definire con esattezza quando si oltrepassi questo limite?

E se i continui accenni nei dialoghi alla canzone e alla poesia sembrano essere inseriti perché facciano da ponte fra le diverse culture così come la letteratura russa fece nell'ottocento gettandosi oltre quella barriera del "Caucaso" idealizzata da tutti i russi come ultima frontiera della propria sicurezza, altrettanto importante nella costruzione del dramma sono i luoghi aridi e inabitati su cui si svolge la vita e le avventure di un popolo per anni vittima. Come può un minuscolo villaggio sperduto tra le montagne asiatiche essere diventato nel giro di vent'anni da rifugio per contadini a rifugio per terroristi?

Ne esce fuori un film non solo interessante dal punto di vista storico, ma anche valido ed emozionante sotto quello narrativo. I tempi dilatati, spesso accompagnati da un'impersonale voce fuori campo, ricordano la struttura del documentario, ma non perdono di vista la necessità dello spettatore di provare empatia con i personaggi della vicenda. E così il senso di estraniamento, l'incomprensibilità della guerra e di chi bene o male si trova a doverla combattere, finisce con l'accompagnarci anche fuori dal cinema, quando la guerra ritorna sui telegiornali e le strategie geopolitiche un semplice calcolo delle vittime.

La frase: "I russi credono nel destino, gli afgani nella volontà di Allah. Non è la stessa cosa?".

Andrea D'Addio

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