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Finchè morte non ci separi

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio15 ottobre 2019Voto: 6.5
 

  • Foto dal film Finchè morte non ci separi
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Senza perdere tempo, si comincia immediatamente con una situazione dall’evidente sapore macabro, per poi passare a trent’anni più tardi e consentire, sulle note di una rilettura della mitica “Love me tender” di Elvis Presley, l’entrata in scena della coppia protagonista.
Lei, con le fattezze della Samara Weaving vista in “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, è la giovane Grace; lui, incarnato dal Mark O’Brien di “7 sconosciuti a El Royale” e al quale si unisce in matrimonio, è Alex, erede della famiglia Le Domas, ricca dinastia fondatrice dell'impero dei giochi da tavola.

Facoltosa famiglia una delle cui tradizioni prevede che ogni nuovo arrivato si cimenti in un gioco di gruppo, convincendo (o, meglio, costringendo) la sposa, di conseguenza, a partecipare ad un nascondino durante la sua prima notte di nozze, proprio all’interno della grande villa dove si è svolta la cerimonia.
Un nascondino destinato a rivelarsi, purtroppo, una vera e propria caccia all’uomo in cui Grace altro non diventa che la preda da uccidere per far sì che l’ambiguo nucleo familiare del consorte – comprendente, inoltre, il Daniel interpretato dal televisivo Adam Brody e la Becky dai connotati della veterana Andie MacDowell – attui un rito volto ad evitare che una maledizione gli si abbatta contro.

Un nucleo familiare armato e implacabile che i registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett – autori del dimenticabile found footage “La stirpe del male” e rientranti tra gli artefici dell’horror a episodi “Southbound – Autostrada per l’inferno” – rendono temibile combriccola di carnefici in un’operazione che intende essere, in fin dei conti, una moderna variante del super classico “La pericolosa partita”, diretto nel lontano 1932 da Irving Pichel ed Ernest B. Schoedsack. Una variante che, nell’immergersi quasi totalmente tra le pareti della tanto lussuosa quanto lugubre dimora d’ambientazione resa accattivante dal magnifico lavoro scenografico svolto da Andrew M. Stearn, lascia emergere una certa teatralità generale; man mano che il suo obiettivo risulta evidente essere tutt’altro che il prendersi sul serio.
Perché, sebbene non siano affatto assenti né violenza e spargimenti di sangue, con tanto di calapranzi mortalmente tirato in ballo, né dolorose situazioni come quella del chiodo conficcato nella mano, le diverse morti accidentali che tempestano la oltre ora e mezza di visione provvedono chiaramente a fornire la necessaria dose di black humour.

E, mentre probabili omaggi a “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper sono riconoscibili nelle immagini di una insanguinata Grace in fuga e nel momento in cui si sta per consumare il rito in maniera analoga alla cena organizzata da Leatherface e compagni di cannibalismo nel capolavoro del 1974, la ricchezza di contrasti fornita dalla fotografia di Brett JutKiewicz contribuisce a rendere cupamente affascinante l’aspetto visivo.
Fino all’overdose splatter conclusiva di un thriller dell’orrore miscelato a commedia che, fornito anche di qualche colpo di scena ben assestato, intrattiene lo spettatore senza annoiare, grazie soprattutto ad un discretamente serrato ritmo generale.


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